Desert Storm

La chiamarono “Desert storm”. Una “Tempesta nel deserto” che segnò l’avvio dei nuovi equilibri mondiali. Esattamente 30 anni fa, poco dopo l’una di notte del 16 gennaio 1991, dalle navi e dagli aerei da guerra americani, britannici, sauditi partiva un devastante attacco missilistico contro l’Iraq. Era la prima guerra del Golfo.

Una guerra ampiamente annunciata, dopo l’invasione irachena del Kuwait, con un ultimatum dell’Onu scaduto il 15 gennaio e sanzioni economiche senza precedenti.

Erano passati due anni dal crollo del Muro di Berlino e si stavano ormai disgregando il Patto di Varsavia e la stessa Unione Sovietica. «La guerra fredda è terminata, siamo entrati in una nuova era che offre grande speranza», dirà il presidente americano Bush (padre) ma «la crisi del Golfo ci ricorda che vi sono ancora nel mondo fonti autonome di turbolenza». Dopo aver sostenuto negli anni Ottanta l’Iraq di Saddam Hussein nella guerra contro l’Iran di Khomeini (uno scontro costato enormi perdite umane ad entrambi i paesi) gli Usa spingono il Kuwait (che ha sostenuto l’Iraq nella guerra), a esigere da Baghdad il rimborso del prestito di decine di miliardi di dollari e lo sfruttamento del giacimento petrolifero sotto i due territori. Fingono equidistanza (con le famose rassicurazioni dell’ambasciatrice USA a Baghdad) e così Saddam Hussein invade il Kuwait, sperando di garantirsi qualche concessione in cambio del ritiro. La trappola funziona. Si forma una grande coalizione a guida americana che invia nel Golfo uno schieramento militare mai visto prima.

Nel novembre 1990 il Consiglio di sicurezza dell’Onu approva con 12 voti favorevoli (compreso quello dell’Urss), 2 contrari (Cuba e Yemen) e l’astensione della Cina la Risoluzione 678 che autorizza l’uso di «tutti i mezzi necessari» contro l’Iraq.

Ancora Bush dirà che «la crisi del Golfo passerà alla storia come il crogiolo del nuovo ordine mondiale».

Quello che è certo e che ci saranno milioni di morti, invalidi, orfani, rifugiati provocati dalla guerra – oltre al successivo milione e mezzo di morti, tra cui mezzo milione di bambini, provocati dai successivi 12 anni di embargo all’Iraq e dagli effetti a lungo termine dei proiettili all’uranio impoverito (che colpirà anche i militari della coalizione).

Per 43 giorni, gli arei americani e dei loro alleati sganciarono 250 mila bombe (comprese quelle a grappolo con oltre 10 milioni di submunizioni), migliaia di testate a uranio impoverito, presenti su missili da crociera, razzi, oltre ai proiettili sparati da carri armati ed elicotteri. Un gigantesco poligono di tiro, applicato anche sulle colonne irachene in fuga, carbonizzando uomini e mezzi.

Due aspetti vanno richiamati in particolare in quella tragedia.

Il primo è che la guerra diventava spettacolo televisivo in tutto il mondo, grazie alla copertura diffusa dal Pentagono, che aveva evacuato i giornalisti dall’Iraq. Una scelta che sarebbe andata avanti, in peggio, con la seconda guerra del Golfo nel 2003 (i famosi giornalisti “embedded”). Nel 1991 a Baghdad rimasero – lo ha ricordato Giuliana Sgrena in questi giorni – solo Stefano Chiarini del Manifesto, Peter Arnett della Cnn e Fabrizio del Noce della Rai.

Il secondo è che l’Italia partecipa alla guerra  – denominata “operazione di polizia internazionale” – con 12 cacciabombardieri Tornado, che effettuano oltre 200 missioni, sganciando quasi 600 bombe, decise e coordinate dal comando statunitense.

E’ la prima violazione dell’articolo 11 della Costituzione. Una ferita mai rimarginata. La Nato, pur non partecipandovi ufficialmente in quanto tale, mette a disposizione sue forze e basi.

Subito dopo la guerra la Nato vara – come evidenzia Manlio Dinucci – sulla falsariga della nuova strategia Usa, il «nuovo concetto strategico dell’Alleanza», che l’Italia ricopia col «nuovo modello di difesa». Si passa così di guerra in guerra, presentandole quali «operazioni umanitarie per l’esportazione della democrazia»: Jugoslavia 1999, Afghanistan 2001, Iraq 2003, Libia 2011, Siria 2011, e altre.

Un vasto e plurale movimento di opinione contro la guerra – nel quale il mondo cattolico svolse un ruolo importante, anche dopo l’affermazione di papa Giovanni Paolo II sulla guerra “come avventura senza ritorno” – si mobilitò e scese in piazza nel nostro paese con scioperi, manifestazioni, atti di disobbedienza civile, blocchi ai treni che trasportavano mezzi militari, dibattiti, appelli che coinvolsero intellettuali, artisti, giornalisti…

Un impegno che si ripropose anche in anni successivi, sicuramente con maggiori difficoltà e contraddizioni, visto che la “politica” nella stragrande maggioranza si allineò alle logiche belliche.

Resta ancora aperta (forse ancora più attuale in questo tempo di pandemia) la riflessione e l’auspicio di Ernesto Balducci che tanto si spese contro la guerra, che “Il futuro del mondo non è quello del dominio di una cultura su tutte le altre ma quello della convivenza di tutte le tribù della terra. E la convivenza vuol dire: primo, recuperare il villaggio perduto con tutto il patrimonio di umanità che esso aveva elaborato; secondo, aprirlo senza pretese di dominio alla solidarietà verso tutti i villaggi del mondo”.

Trent’anni dopo siamo ancora di fronte a questo interrogativo.

16 gennaio 2021

Antonio Corbeletti (Componente del Comitato ANPI provinciale di Pavia – Presidente della Sezione Anpi di Voghera)